Il testo dell'audizione del ministro Galletti al Comitato Schengen sui fenomeni migratori nel Mediterraneo e le ricadute ambientali

Palazzo San Macuto – Via del Seminario, 76
Indagine conoscitiva “Flussi migratori in Europa attraverso l’Italia, nella prospettiva della riforma del sistema europeo comune d’asilo e della revisione dei modelli di accoglienza”

Grazie onorevole presidente,
mi rendo conto che dinanzi ad una tragedia di enormi proporzioni come quella dei migranti, con migliaia di perdite di vite umane, gli aspetti ambientali possano apparire meno rilevanti.

Tuttavia credo che la nostra forza, la forza delle nostre democrazie, della nostra civiltà sia quella di non rinunciare ai nostri valori. La tutela dell’ambiente per noi e soprattutto per le prossime generazioni è uno di questi valori. Sta a noi la capacità di difenderlo anche in presenza di una situazione inedita e gravissima. Vengo quindi al merito dei temi da lei sollevati. Le implicazioni di carattere ambientale connesse al fenomeno dei migranti, vanno inquadrate nel particolare contesto di fragilità dell’eco-sistema del Mediterraneo, già sottoposto, quale bacino semichiuso, a rilevantissime pressioni antropiche.

L’area interessata dalle rotte dei barconi dei profughi costituisce uno degli esempi più importanti per la biodiversità da un punto di vista internazionale. Non è un caso, infatti, che nel canale di Sicilia siano state individuate, più aree EBSA (Ecologically or Biologically Significant Marine Areas), cioè aree più speciali e significative per gli aspetti ecologici e biologici, riconosciute dalla Convenzione mondiale per la biodiversità, adottata a Rio de Janeiro nel 1992 nel corso del summit mondiale delle Nazioni Unite su “Ambiente e Sviluppo”.

Nello scorso mese di maggio, inoltre, sono stati approvati due emendamenti al Disegno di legge “collegato ambientale”, attualmente in corso di esame presso le Camere proposti dal Sen. Marinello e volti, oltre ad una più rapida istituzione delle aree marine protette, a
valorizzare la peculiare specificità naturalistica di ecosistemi sommersi quali il “Banco di Graham” (che include l’isola Ferdinandea), il “Banco Terribile”, il “Banco di Pantelleria” e il “Banco Avventura”, tutti localizzati nel Canale di Sicilia e caratterizzati da una elevata biodiversità, o, nel caso del Banco di Graham, da fenomeni vulcanici e idrotermali.

Tuttavia, per difendere efficacemente e salvaguardare la biodiversità marina, è necessario prima capire dove intervenire, ed è qui che emerge la rilevanza “internazionale” delle aree marine di importanza ecologica e biologica. E questo vuol dire, allo stesso tempo, accettare l’idea che alcune zone identificate sulla base di stringenti criteri predeterminati, siano inevitabilmente da privilegiare, nelle azioni di tutela e di conservazione, rispetto ad altre.

E questo è appunto il discorso che avevo introdotto, riferendomi alla particolare vulnerabilità, dal punto di vista ambientale, e della corrispondente esigenza di tutela, delle aree marine ricadenti nel Mediterraneo meridionale, interessate al fenomeno della migrazione di
clandestini provenienti dalle coste nord-africane.

Ma è anche importante comprendere nella sua componente quantitativa il “fenomeno” dei migranti che comporta l’abbandono, e il rischio concreto del loro affondamento, sia in mare aperto, cioè in acque internazionali, che lungo le coste nazionali, cioè in acque
territoriali, dei battelli utilizzati.

Per contrastare il fenomeno dello scafismo, una delle soluzioni ipotizzate a livello nazionale, che ha avuto peraltro ampio risalto sui mezzi di informazione, prevedeva che, dopo aver soccorso e messo in salvo i migranti, il comandante dell’unità navale operante avrebbe potuto procedere, in luogo del sequestro, all’affondamento in mare del natante, qualora ricorressero determinate condizioni legate alla salvaguardia delle vite umane e alla sicurezza della navigazione, e non fossero praticabili altri interventi.

Benché fosse previsto che la facoltà di affondamento si sarebbe applicata ai soli natanti di stazza lorda inferiore a 500 tonnellate, poiché tale misura corrisponde a navi da carico di lunghezza anche superiore a 50 metri, sono apparse subito evidenti le implicazioni di
natura ambientale che l’applicazione di tale regola, ancorché limitata ai soli casi eccezionali consentiti, avrebbe potuto provocare.

Ma, soprattutto, ha destato preoccupazione l’ipotesi di una norma nazionale che disponesse in merito agli usi delle acque internazionali, particolarmente definiti, com’è noto, dalle convenzioni internazionali.

Infatti, al contrario di quanto si voleva proporre, non v’è dubbio che dalle norme e dai principi di diritto internazionale discenderebbe, invece, un preciso obbligo posto in capo al nostro Paese di prevenire, ridurre e, ove possibile, eliminare l’inquinamento causato dall’immersione in mare di rifiuti o di altro materiale.

Voglio richiamare, sul punto:

  • la Convenzione di Barcellona per la protezione dell’ambiente marino e della regione costiera del Mediterraneo in cui è previsto il divieto assoluto di immersione di rifiuti e di altro materiale, con talune eccezioni per le quali è prevista una preventiva autorizzazione speciale;
  • la Convenzione di Londra sull’immersione dei materiali in mare del 1972 che prevede, come prescrizione generale l’impegno delle Parti aderenti a proibire lo scarico in mare di qualsiasi rifiuto o altro materiale, fatta eccezione per quelli specificatamente elencati – tra cui figurano le navi – per i quali è comunque necessaria un’apposita autorizzazione.
  • la Convenzione sulla rimozione dei relitti delle navi del 2007, firmata dall’Italia nel 2008, il cui iter di ratifica non si è, tuttavia, ancora perfezionato. Essa attesta, comunque, la progressiva recente evoluzione del diritto internazionale non solo con la riaffermazione della necessità di prevenire, ridurre ed eliminare l’inquinamento derivato dalla presenza di materiali attraverso il divieto di immersione, ma anche con la rimozione dei relitti di navi presenti nell’ambiente marino.

Quindi, eventuali iniziative miranti alla “distruzione” e all’affondamento in alto mare dei barconi utilizzati dai trafficanti per il trasporto dei clandestini, una volta concluse le operazioni di soccorso, debbono presentare, in ogni caso, oggettivi caratteri di
eccezionalità ed essere comunque legate alla situazione contingente.

Qualora si dovesse far fronte a una situazione di carattere emergenziale e straordinaria, l’unica strada è seguire le stringenti e vincolanti procedure definite dalla Convenzione di Londra, dove si prevede che in caso di “emergenze che pongano un inaccettabile rischio per la salute dell’uomo, la sicurezza o per l’ambiente marino e per i quali nessun’altra situazione” è possibile procedere all’affondamento dei natati ma che “preventivamente, la Parte consulterà qualunque altro o tutti gli altri Paesi che ne potrebbero essere danneggiati nonché l’Organizzazione che, dopo aver consultato le altre Parti e gli organismi internazionali interessati, raccomanderà nel più breve tempo possibile alla Parte le procedure più adeguate da adottare”.

E’ evidente che tale ragnatela di consultazioni “diplomatiche” non è possibile in una situazione di emergenza con centinaia di profughi che rischiano la vita in alto mare ed in cui bisogna quindi operare con celerità, efficacia ed efficienza.

Ma la previsione della convenzione di Londra, chiaramente, non è tarata la situazione attuale e sul massiccio fenomeno migratorio in corso nel Mediterraneo.

Per quanto concerne il potenziale inquinante rappresentato dai battelli abbandonati dagli scafisti, tenendo conto delle dimensioni medie e delle caratteristiche di tali mezzi, nella maggior parte costruiti in legno, e poi a seguire in ferro e vetroresina, neoprene (i gommoni) e in vetroresina, con apparati motore in genere di bassa potenza, appare verosimile poter stimare per ogni imbarcazione una quantità minimale di olio lubrificante e carburante, ai quali deve essere necessariamente aggiunto materiale di vario genere connesso alla navigazione (parabordi in gomma, bidoni di plastica, cime di nylon, ecc.).

E’ importante evidenziare, altresì, che la vernice dello scafo, sia delle imbarcazioni in legno che di quelle in ferro, costituisce di per sé fattore ad alta potenzialità inquinante per gli ecosistemi marini.

Per quel che concerne le competenze sulle imbarcazioni sequestrate a seguito di operazioni di polizia contro i fenomeni di immigrazione clandestina la materia è tuttora disciplinata da una “Circolare” della Presidenza del Consiglio dei Ministri” del 2003 .

Tale strumento ha reso possibile procedere alla distruzione dei mezzi di trasporto sequestrati, non assegnati agli organi di Polizia o ad altri organi dello Stato che ne facciano richiesta per le proprie finalità istituzionali, senza dover attendere il provvedimento
definitivo di confisca.

L’intervento di distruzione avviene ai sensi della normativa ambientale vigente in materia di rifiuti che prevede la messa in sicurezza del mezzo mediante allontanamento di tutti gli elementi che possono diffondere materiali inquinanti, l’asportazione di tutti i materiali infiammabili e il sezionamento in blocchi del relitto e trasporto dello stesso ai fini dello smaltimento. I lavori sono seguiti dalle Capitanerie di Porto d’intesa con la competente ARPA.

Ma anche in questo caso ci troviamo dinanzi ad una previsione normativa tarata su una realtà ben diversa dal grande esodo che sta attraversando il Mediterraneo in questi mesi, anche dal punto di vista delle risorse finanziarie necessarie per eseguire lo smantellamento e la bonifica dei relitti.

In armonia con il quadro che ho appena sinteticamente delineato, non posso non sottolineare la necessità che nell’ambito della più ampia discussione, sia in sede UE che ONU, per l’adozione di iniziative condivise per fronteggiare l’emergenza umanitaria, si debba allo stesso tempo concertare ogni iniziativa volta alla soluzione della problematica ambientale che stiamo più nello specifico affrontando in questa sede.

Credo che la rimozione fisica mediante affondamento immersione dei battelli alla deriva non possa che presentare caratteristiche di eccezionalità e contingenza e che il ricorso a tale prassi non possa che essere decisa e avallata preventivamente a livello europeo e internazionale, proprio perché configura la violazioni di normative nazionali, europee e trattati internazionali.

L’unica strada percorribile per evitare che i battelli abbandonati a se stessi, dopo aver tratto in salvo i migranti in acque non territoriali, possano rappresentare un rischio per la navigazione o per l’ecosistema marino in caso di affondamento, o venire al limite riutilizzati dagli scafisti, è quello di trainarli presso la costa con appositi rimorchiatori dedicati per poi assoggettarli, una volta definitone lo status proprietario, alla luce degli usi e delle consuetudini internazionali, alle operazioni di recupero e/o smaltimento.

In tale eventualità non sarebbe scorretto parlare di dare vita a una filiera produttiva che possa garantire uno smaltimento corretto e non inquinante dei barconi stessi sulle coste siciliane con l’avvio di una esperienza cantieristica che una volta superata la fase emergenziale potrebbe proseguire creando lavoro, professionalità e sviluppo in una terra segnata dalla crisi e dalla disoccupazione.

Appare evidente che tale operazione andrebbe ricompresa nell’ambito delle iniziative complessivamente varate per l’emergenza profughi, e quindi svolta con il contributo economico dell’intervento internazionale essendo parte integrante del fenomeno che si intende
fronteggiare.

Con la soluzione che ho prospettato si potrebbe così da un lato operare un corretto “fine vita” di queste imbarcazioni, peraltro provvedendo al recupero dei materiali riciclabili e riusabili, e dall’altro, nell’immediato e finché duri l’emergenza, innescare un
sorta di ristoro economico per la Sicilia che in questi anni ha mostrato straordinaria capacità di accoglienza dando una prova di grande umanità e civiltà che dovrebbe essere d’esempio in Europa.

Grazie.


Ultimo aggiornamento 18.06.2015