di Gian Luca Galletti - Ministro dell’Ambiente
A Riga è in corso il consiglio informale dei ministri dell’ambiente e dell’energia. All’ordine del giorno anche le prospettive della trattativa in vista di Parigi.
Credo che sia il tema su cui dovremo spendere tutto il nostro impegno e tutta l’autorevolezza europea. Perché, se a dicembre tutti gli stati firmeranno un accordo vincolante, si tratterà di un evento storico, del più formidabile e probabilmente definitivo volano per il cambio d’assetto dell’economia mondiale.
Quella che si deciderà sotto l’egida della lotta ai cambiamenti climatici sarà in realtà una nuova rivoluzione industriale, che formalizzerà in un trattato internazionale la scelta di cambiamento dei sistemi energetici del pianeta, e quindi produttivi, avviando il pianeta verso un futuro de-carbonizzato.
Le vite di un miliardo e 300 mila persone che oggi vivono senza avere l’energia elettrica nelle case non possono essere illuminate con gli idrocarburi che vengono prodotti lontanissimo e che devono essere trasportati in remoti villaggi dell’Africa sub sahariana o dell’India. Il futuro è della generazione diffusa, dell’energia che viene auto prodotta in loco e che può alimentare pozzi, macchine agricole, può dare elettricità a scuole e piccoli ospedali. Questa è l’energia che può dare risposte alla straordinaria pressione demografica che oggi esiste e che potrebbe portare il mondo entro pochi decenni alla popolazione di 10 miliardi di abitanti che, giustamente, aspireranno a standard di vita – e quindi di consumo di energia – assimilabili ai nostri.
Già adesso dobbiamo dare elettricità a oltre un miliardo di persone che ne è priva nelle case e nei villaggi e ricordare che oggi, ancora oggi, la metà degli abitanti della terra prepara il cibo su un focolare a lega, non nelle cucine a gas o elettriche come le nostre.
Questa enorme richiesta di civiltà, di benessere, di equità sociale, non si vince con il petrolio. Il petrolio era il combustibile di una terra che aveva un terzo degli abitanti come a metà del secolo scorso, o meno di un miliardo come all’inizio dell’800.
Oggi non c’è petrolio o gas che possa bastare ad un pianeta con 10 miliardi di abitanti. La domanda di civiltà, di cibo, di qualità di vita si può affrontare e vincere solo con un modello di sviluppo sostenibile.
È una scelta obbligata politicamente, economicamente ma, soprattutto io credo, eticamente. Ma non è una scelta facile. La strada verso l’intesa di Parigi è segnata ma non è priva di insidie, di incertezze, di pericoli. L’accordo è possibile, a portata di mano, ma non è ancora firmato.
Questa è la dimensione in cui dobbiamo proiettarci, quella globale, perché globali possono essere le nostre ambizioni in un mercato globale. Una sfida che deve essere raccolta dall’Italia come abbiamo convenuto lunedì al meeting di primavera della Fondazione Sviluppo Sostenibile, in preparazione degli “Stati Generali della Green Economy” del prossimo novembre.
Ci vorrà coraggio e capacità di volare alto, capacità di fare squadra come Paese. Il futuro della green economy non si gioca infatti solo sugli incentivi nazionali, sul singolo provvedimento, si gioca sulla capacità culturale, tecnologica, di visione che il sistema-paese sarà in grado di mettere in campo nei prossimi decenni.
Dico questo non per sminuire le responsabilità del Governo nel creare le condizioni di crescita dell’economia verde, anzi per accentuarle. È questa la logica del Green Act che abbiamo messo in cantiere: svincolare le singole misure che sono state adottate dalla loro specificità e occasionalità ed inserirle in un disegno di competitività nazionale.
Il Green Act sarà lo strumento per dare organicità alla scelta dello sviluppo sostenibile, inquadrando tutte le misure di sviluppo dell’economia in una cornice unica e coerente, che individui lo sviluppo sostenibile e la sua promozione come driver fondamentale per la crescita del Paese nei prossimi decenni.