Vajont, lo Stato non ripeta quei terribili errori

Ricorrono oggi i 50 anni dalla terribile strage del Vajont. Ieri il ministro dell'Ambiente Orlando ha tenuto in aula al Senato il discorso di commemorazione a nome del governo.

Signor Presidente, Onorevoli Senatori,
siamo qui a onorare i morti del 9 ottobre di cinquant’anni fa, i morti di Longarone, di Erto e Casso, degli altri abitati del Vajont che furono teatro della catastrofe. Qualche giorno fa, in visita nei luoghi del disastro, ho sentito un forte sentimento di debito. Il debito di non essere mai andato prima. 

E non come Ministro della Repubblica, ma come cittadino, come italiano. La valle del Vajont, il muro di cemento della diga, i paesi distrutti e abbandonati, e i paesi distrutti e ricostruiti, dovrebbero essere tappe fondamentali di un percorso di formazione della coscienza nazionale, di quella che alcuni chiamerebbero una “religione civile”. Bisogna andare al cimitero di Fortogna. Andare a leggere quei nomi. Di molte di quelle vite spazzate vie e sommerse non rimase che un nome. Sono 1910 scolpiti nelle lapidi, 1910 i morti secondo la cifra “ufficiale”. Un numero che non si può e non si deve dimenticare, che rimane scolpito nella memoria. 

La memoria ha dominato tutto in quei luoghi. E noi, qui, oggi, come rappresentanti delle istituzioni – istituzioni pure molto diverse da quelle che contribuirono alla «costruzione della catastrofe» in un tempo non troppo lontano – abbiamo il dovere di accostarci a quella memoria, a quel ricordo, con un carico di umiltà, di deferenza.  

Ci sono momenti nella vita di una nazione in cui lo Stato e chi lo rappresenta hanno il dovere di assumersi la più difficile delle responsabilità, la più grave: chiedere scusa ai propri cittadini. Io non lo so se in questi lunghi anni, di fronte ai cittadini del Vajont, lo Stato abbia fatto tutto quello che doveva – certo non tutto quello che poteva – per emendarsi da responsabilità che un processo tortuoso portò finalmente, dopo troppo tempo, alla luce.

E non ci sono solo gli errori di cinquant’anni fa, troppe sono state le disattenzioni del dopo. Ci sono parole non dette, parole sbagliate che si sono continuate a pronunciare. Se si parla di “incuria dell’uomo”, nella legge che istituisce la Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali, una legge in qualche misura ispirata dal Vajont, vuol dire che ancora oggi lo Stato – forse solo per distrazione – non onora il debito con la memoria. La causa non fu l’incuria, fu l’uomo, le sue colpe, le sue complicità. Correggere questo errore, non meno grave se compiuto per distrazione, è oggi un dovere di tutto il Parlamento.

E soprattutto, mi permetto di dirlo, quando purtroppo per queste ragioni facciamo ancora troppi conti quotidiani con inaccettabili perdite di vite umane. E’ successo stamattina nel tarantino, era capitato qualche giorno fa in Maremma.

La memoria è esigente, deve esserlo. La memoria del Vajont è stata disseppellita dalle inchieste prima, e poi dalla letteratura. i documentari, il cinema, e soprattutto quella straordinaria rappresentazione di teatro civile, che ne hanno fatto un racconto collettivo. Ma questo racconto disseppellito si è davvero radicato nella coscienza nazionale? Io credo che si debba andare in quei luoghi, che ci debbano andare le scuole, che vi sia comunque bisogno di fissare con gli occhi quelle montagne, quel muro cemento e quelle tombe, di ricostruire ancora il filo della memoria con la voce viva dei sopravvissuti, dei salvati. Il racconto speciale di com’era prima e quello terribile di quella sera: il frastuono, il vento che non finisce più, il terremoto delle case, le luci che si spengono, l’aria che non si fa respirare, e l’acque le pietre e il fango, la distesa di macerie, le urla sepolte.

Per chi come me, e molti in quest’Aula, è nato dopo quel tragico 9 ottobre 1963, il disastro del Vajont non è un ricordo. Però è un simbolo. Un simbolo potente dell’Italia che abbiamo costruito, nel bene e nel male, con le luci e le ombre. Un simbolo degli errori, delle tragedie, che avremmo potuto evitare. Perfino le Nazioni Unite lo citano come un caso paradigmatico di un rapporto, di un calcolo sbagliato dell’uomo con la terra, di ciò che non si doveva fare.

Il Vajont è quell’opera dell’uomo, con la sua audacia e le sue colpe, è la violazione di un limite nella trasformazione della natura, è il rapporto superficiale con la scienza, è l’imprudenza nel perseguire il progresso. Per tutto questo, la parole di un Ministro dell’Ambiente non possono limitarsi alla commemorazione. Devono avere un preciso significato politico: perché come allora, e forse più di allora, il rapporto dell’uomo con la natura nel processo di sviluppo è il tema del nostro tempo.

Tanta strada è stata fatta dal 1963. Le vergognose vicende che portarono alla tragedia del Vajont, con responsabilità di funzionari dello Stato, dell’allora Ministero dei lavori pubblici, oggi non potrebbero più ripetersi. Le garanzie per la sicurezza dei cittadini, le tutele ambientali nell’opera di trasformazione del territorio, sono acquisizioni normative, vincoli sempre più stringenti. Eppure, se guardo alle questioni con cui sono chiamato ogni giorno a confrontarmi, il disastro del Vajont – cui concorsero responsabilità umane e cause naturali – resta un monito sempre attuale.

La grande questione della difesa del suolo e della sicurezza idrogeologica si pone con maggiore acutezza rispetto al 1963. È una vera e propria emergenza nazionale: 5581 comuni italiani ricadono in aree classificate a potenziale rischio più alto. Le conseguenze del dissesto idrogeologico non sono solo sociali, economiche e ambientali ma, oggi come allora, il rischio di eventi catastrofici espone le vite umane che vivono in quei luoghi.

Per questo mi sono impegnato, con l’intero Governo, a promuovere un disegno di legge per il contenimento del consumo e per il riuso del suolo che aspetta ora il parere della Conferenza unificata Stato-Regioni che mi auguro sia positivo e rapido perché questa legge – e voglio dirlo a tutte le forze politiche – è una assoluta priorità.

Con lo stesso spirito in quest’Aula avete approvato a Settembre un ordine del giorno unitario sui rischi da dissesto idrogeologico, che tra le altre cose ci impegna come Governo a prevedere nell'ambito della legge di stabilità risorse aggiuntive da destinare alla prevenzione e alla manutenzione del territorio; ad assumere iniziative perché l'utilizzo di tali risorse sia escluso dal saldo finanziario rilevante per il rispetto del patto di stabilità; ad istituire un Fondo nazionale per la difesa del suolo.

Anche in Commissione ambiente della Camera dei Deputati qualche giorno fa è stata approvata all’unanimità una risoluzione (primo firmatario l’on. Realacci), affinché la commemorazione della tragedia del  Vajont possa tradursi in una serie di concrete iniziative tese a risolvere le criticità del sistema di prevenzione e tutela del territorio. La prevenzione è la sfida principale. È quella  su cui dobbiamo concentrarci, anche in termini di sensibilizzazione, perché la consapevolezza su questo tema oggi non è molto superiore a quella di cinquant’anni fa.

Abbiamo bisogno di una grande opera di riassetto del territorio, di infrastrutture ambientali che lo mettano in sicurezza, di interventi di prevenzione dai rischi legati agli assetti naturali e ai progetti di trasformazione del territorio. Mancano le risorse, si dice. E in effetti, quelle necessarie sono ingenti.

Il fabbisogno complessivo dei Piani di assetto idrogeologico ammonta a circa 40 miliardi di euro, di cui 11 miliardi attengono alle misure più urgenti. Al Ministro Saccomanni, al quale abbiamo già chiesto nella Legge di stabilità 500 milioni annui per la mitigazione del rischio, ho rappresentato l’esigenza di risolvere anche il problema del superamento dei limiti del Patto di stabilità interno per gli interventi di messa in sicurezza del territorio. Una condizione di impossibilità di spesa che si aggiunge beffardamente alla scarsità delle risorse. Per quest’opera di riassetto del territorio, è tuttavia indispensabile che in sede europea si riconosca la possibilità di utilizzare i fondi strutturali per la messa in campo di azioni di contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico. Su questo, oltre al’impegno del Governo, dev’esserci il supporto dell’intero Parlamento.

Bisogna avere la consapevolezza che i mancati interventi di prevenzione ambientale, rischiano di generare un costo molto più alto poi per riparare i “disastri”. È quello che ci dicono tutte le stime. Quello che non dicono, invece, sono gli altri costi incalcolabili, ché riguardano la vita e la salute delle persone. Non si tratta di una battaglia di ecologismo ideologico, dunque. Il deterioramento del territorio, il degrado ambientale, le conseguenze dei cambiamenti climatici, la cattiva gestione dell’acqua e dei rifiuti, produrranno spese insostenibili se non avremo preso misure adeguate in tempo.

Il Vajont è sempre attuale perché richiama l’insieme delle questioni intorno alle grandi opere, specialmente in contesti naturali di una bellezza che il mondo ci invidia. Con la questione delle grandi opere, si tocca il punto critico del rapporto tra la tecnica e i suoi progressi, e le esigenze di vita, di qualità della vita, delle popolazioni.

Rispetto a cinquant’anni fa possiamo forse vantare una maggiore fiducia nella tecnica, non fosse che per le regole di prudenza che accompagnano ora progressi e sperimentazioni. Ma non dobbiamo mai abbassare la guardia. A tenere alta la guardia sono spesso le popolazioni locali. Le resistenze dei cittadini e delle comunità non si possono sempre liquidare come “ambientalismo dei no”, oppure “localismo dei no”. C’è una saggezza antica delle popolazioni, di chi ha esperienza e tradizione dei luoghi, che merita fiducia, attenzione, rispetto. Perché anche questo ci insegna la tragedia del Vajont: penso alle famiglie di Erto che si opponevano, finché poterono, alla costruzione della diga; penso a chi denunciò per tempo quello che già si sapeva e che si poteva evitare.

Non si tratta di accettare l’opposizione alle opere. Si tratta di fare un investimento nella partecipazione della popolazione alle decisioni. Quello che non si fece allora, e che in Italia non si è mai fatto. È solo attraverso un investimento sulla partecipazione attiva che la politica e le istituzioni a tutti i livelli – su questioni sentite come quelle ambientali, e specie su opere che impattano fortemente sul territorio – possono ricostruire quel rapporto di fiducia coi cittadini largamente compromesso. Non è solo una questione di metodo, ma anche di merito. Perché le soluzioni progettuali migliori, quelle che si avvicinano all’interesse generale a uno sviluppo di qualità, che rispetti e rilanci le vocazioni territoriali, non possono che derivare da un confronto – anche duro, serrato – tra visioni e approcci diversi. Per queste ragioni ho proposto al Consiglio dei ministri di introdurre nel nostro Paese lo strumento del “debat public”, attraverso procedure – vigilate da un soggetto pubblico indipendente, da svolgersi in tempi certi – di consultazione delle popolazioni sulla realizzazione delle grandi opere che incidono sull’ambiente e la vita delle comunità locali.

Solo se coinvolgimento e partecipazione vengono garantiti fin dall’inizio, le scelte potranno essere perseguite con efficacia e tempestività, in quanto “accettate” in fase decisionale e non contestate a posteriori fino allo stallo. In questo modo, anche i “no” potranno essere adeguatamente motivati. E si può scoprire allora, dopo una discussione pubblica responsabile, che una certa opera non si può fare in un certo luogo perché il rischio è troppo alto. Si può scoprire che a una come Tina Merlin quantomeno va dato ascolto, e non va denunciata per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico per fini politici. 

La memoria del Vajont oggi ci ricorda che non si possono ripetere gli errori del passato, che il cammino di sviluppo dell’uomo non può minacciare la natura o continuare a violarla, ma deve indirizzarsi verso un sentiero di sostenibilità sociale e ambientale. Perché come scrisse quella donna straordinaria, Tina Merlin, all’indomani della catastrofe: “Non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa”. 


Ultimo aggiornamento 17.10.2013